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È sempre più difficile trovare autisti. Una criticità che da Oltremanica si è allargata al Continente. Il passaggio generazionale in questa categoria professionale va gestito facendo acquisire nuove competenze per padroneggiare la trasformazione digitale della logistica.
«Gli accordi finali ci aiuteranno a difendere i posti di lavoro nel Regno Unito e a riprendere in mano il nostro destino, uscendo dal mercato unico Ue»: avevano il gusto di una beffa le dichiarazioni del primo ministro Boris Johnson al termine dell’estenuante trattativa per l’attuazione della Brexit. Era il 24 dicembre 2020.
Nessuno, forse neppure il più feroce oppositore del referendum, poteva supporre che nove mesi dopo la Gran Bretagna si sarebbe trovata al centro di uno storico disastro logistico. Negli oltre 900 pub della catena Wetherspoons scarseggia la birra, McDonald’s e Kentucky Fried Chicken cancellano i piatti dai menù come nel New Jersey allagato dall’uragano Ida. Addirittura, una newsletter gastronomica invita a mettere da parte gli ingredienti per i banchetti di fine anno. Perché non è così sicuro che gli autisti militari, messi a disposizione per garantire la filiera degli alimentari essenziali, riescano a reggere il ritmo del lavoro.
Colpa del Covid? È quanto che afferma Johnson per difendersi. O è forse colpa del rientro in massa degli autisti stranieri ai loro Paesi d’origine, a causa delle norme restrittive sui visti post Brexit? È questa, invece, la tesi della Road Haulage Association, la “Confindustria” del trasporto britannico. Oppure, ancora, è l’effetto di un ricambio generazionale che non c’è stato? Gli autisti esperti, dati i salari e le condizioni di lavoro, vanno in pensione appena possibile e le nuove leve, a stipendi paragonabili, preferiscono il posto fisso in fabbrica alla vita nomade a macinare centinaia di chilometri ogni giorno. Non a caso nel 2020 in Gran Bretagna sono state rilasciate 25mila nuove patenti per camion in meno rispetto all’anno precedente.
La verità è probabilmente nella sintesi delle tre motivazioni, come ha documentato un recente studio dell’agenzia britannica di consulenza strategica TI Transport Intelligence: la carenza di autisti per i veicoli industriali non è un’esclusiva d’Oltremanica. Certo, nel Regno Unito la stima è stata rivista al rialzo proprio dalla Road Haulage Association che è passata dai 60mila driver vacanti di giugno ai 100mila dei primi di settembre. Ma l’analisi di Transport Intelligence parla di 124mila posti liberi in Polonia, 45mila in Germania, 40mila circa Francia e 15-16mila sia in Italia che in Spagna.
Per tamponare la situazione il governo di Boris Johnson sta valutando di semplificare gli esami di guida, così da riuscire ad arruolare tremila nuovi autisti alla settimana. Una soluzione paradossale visto che, in realtà, la trasformazione digitale della logistica imporrebbe di allungare i tempi di formazione di chi si siede al volante. È vero che i tempi delle doppiette sui 12 rapporti non sincronizzati sono alle spalle, ma per gestire al meglio i sistemi di guida predittiva che controllano i cambi automatici dei bilici di oggi non bastano un po’ di orecchio e di coordinazione sui pedali. Per non parlare di navigatori satellitari che, se male impostati, possono portare a disastrosi “fuori rotta” su percorsi intransitabili per autoarticolati lunghi 18 metri e più.
Non si tratta di fantasie per fan della tecnologia, visto l’approccio di un altro importante attore della logistica: chi gestisce i servizi per le infrastrutture. Non è un caso che si parli sempre più di smart mobility legata agli strumenti di esazione del pedaggio autostradale – il più diffuso in Italia è il Telepass – che da un lato diventano piattaforme di pagamento digitali (dagli spazi di sosta ai biglietti del treno, passando per il caffè dell’autogrill) e dall’altro vanno a integrarsi con i gestionali della logistica industriale per ottimizzare le tratte ed evitare i viaggi a vuoto, cosa che avviene già oggi, per esempio, grazie agli accordi tra Telepass e colossi quali Esselunga o Barilla. Ai nuovi autisti – e non solo a quelli britannici – si chiede quindi di sfruttare al massimo la loro natura di “nativi digitali” per essere pronti ad affrontare le sfide della digitalizzazione.